C’è il sole oggi. L’aria è tiepida e ormai la primavera è alle porte. Saranno circa
due ore che sto davanti all’armadio a cercare qualcosa di decente da indossare
per questo colloquio. Il fatto che gli ultimi tre siano andati male non mi aiuta.
Però devo almeno provarci, perciò faccio un respiro profondo e provo
l’ennesimo paio di pantaloni. Alla fine opto per la camicetta azzurra, un paio di
jeans e la mia giacca blu porta-fortuna. Beh, o almeno lo era fino a qualche
tempo fa. Ora non me ne va bene una.
Lancio un’occhiata all’orologio appeso alla parete grigia e mi accorgo che si
è fatto davvero tardi, per cui afferro la borsa e corro fuori.
«Buona fortuna!», mi urla dalla cucina la proprietaria di casa vedendomi
passare e la sua voce ha un tono sarcastico. Sono due mesi che non pago l’affitto
della camera, ma sono anche due mesi che non trovo lavoro e i pochi risparmi
che avevo li ho usati per pagare le tasse universitarie.
«Grazie», le dico ed esco dalla porta prima che possa ricordarmi che, se non
pago in tempo, potrei ritrovarmi per strada tra qualche giorno. Se ci penso mi
sento ancora mortificata per quello che mi ha ringhiato contro l’altra sera.
«Due, sono due», continuava a dire guardandomi in cagnesco e calcando il
concetto con la mano indicando lo stesso numero.
«Sì», avevo risposto. «Lo so, ma deve capire che sto facendo tutto il possibile
per trovare un lavoro».
Ma il suo tono non era cambiato di una virgola sottolineando che “al
prossimo ritardo avrebbe fatto trovare tutta la mia roba fuori dalla porta”.
Io guardavo di sottecchi il figlio che continuava a ingerire tutto ciò che aveva
nel piatto, con la bocca sporca di sugo e la t-shirt con una macchia di dubbia
provenienza e di chissà quanti secoli fa. Ricambiava il mio sguardo quasi con
superiorità e disprezzo e io, nonostante tutto, un po’ lo invidio, almeno lui ce
l’ha una mamma e un tetto sicuro.
Mi fermo di fronte all’ascensore e attendo impaziente che si liberi, non mi va
di fare cinque piani di scale.
«È rotto!», mi urla l’inquilino di sopra che sta scendendo le scale.
«Di nuovo», aggiunge in tono aspro quando passa accanto a me.
Dannazione, ci mancava solo questa. Sospiro e mi arrendo, dovrò correre se
voglio arrivare puntuale.
Nonostante la piacevole giornata quasi primaverile il quartiere ha dei colori
spenti, pieno di smog causato dalle macchine che vanno di qua e di là. Pur
essendo una zona periferica è piuttosto trafficata a quest’ora del mattino per
via delle fabbriche vicine.
Metto in moto l’auto, riprendendo fiato dalla corsa giù per le scale, detesto il
rumore che fa la sua carrozzeria vecchia. Guardo il foglio poggiato sul sedile
accanto al mio per rileggere l’indirizzo e svolto l’angolo, non è molto lontano
da qui per cui potrei anche arrivare non troppo in ritardo.
Ripasso in mente il discorso che ho preparato per la presentazione e
dall’ansia quasi dimentico persino la mia età. Eh no, Gioia, così non va.
Più mi allontano dal quartiere dove vivo più sembra che il cielo stia
cambiando colore, passando da una sfumatura grigiastra a una di un azzurro
intenso.
Mi fermo al semaforo e ne approfitto per dare un’occhiata alla vetrina alla
mia destra. La moda quest’anno impone colori vivaci: rosso, blu, giallo, e io
ripenso al mio guardaroba pieno di t-shirt bianche e maglioncini bordeaux o
neri. Colori parecchio scuri insomma.
Un’ombra attira la mia attenzione, mi volto di scatto alla mia sinistra e vedo
il solito ragazzino con la spazzola in mano pronto per lavare i vetri.
«No no!», dico facendo cenno con la mano.
Lui resta un attimo con la bottiglietta piena di acqua e sapone sospesa per
aria, poi con un sorrisino annuisce sollevando la spazzola. Suona quasi come
una provocazione. Batto le mani sul volante, apro lo sportello e metto un piede
fuori dall’auto.
«Ma insomma!» gli urlo. «Cosa non ti è chiaro della parola ‘no’?».
«Va bene, va bene, okay!», fa lui sollevando bottiglia e spazzola dal mio vetro.
«Calma, signora, calma», continua ridacchiando.
Stringo gli occhi a fessura, gliene direi quattro se non fosse che l’auto dietro
di me inizia a fare un’orchestra con il clacson per indicarmi che il semaforo è
diventato verde e subito risalgo in auto per ingranare la marcia e ripartire. È
diventata una routine mattutina ormai ed è esasperante, questi ragazzini hanno
letteralmente invaso i semafori e ogni volta che scatta il rosso è una guerra.
Ingrano la marcia, mollo la frizione ma l’auto sobbalza e il motore si spegne.
Cavoli, succede ogni volta che sono in ritardo.
Non ho neanche il tempo di rimettere in moto che sento una forte botta
dietro di me e la mia auto si sposta di qualche centimetro.
Scendo affannata e mi volto verso il ragazzo alla guida che, nel frattempo, si
precipita fuori per controllare gli eventuali danni.
«Ma che diavolo fa?», gli urlo spazientita.
Lui alza lo sguardo su di me, toglie gli occhiali da sole dal viso e mi osserva
distrattamente con una smorfia di disgusto.
«Cosa faccio io? Tu piuttosto, non sai guidare e fai pure la saputella?
Ringrazia che la mia auto non si sia fatta niente. Ora sbrigati a far ripartire il
tuo carroccio, ‘che ho fretta», risponde.
Ha un’aria da riccone spavaldo che mi manda in bestia.
Odio i ricconi spavaldi, ma questo li supera tutti.
Rimango a bocca aperta cercando l’offesa più dura da rivolgergli, ma mi
torna in mente il mio colloquio.
Devi stare calma, Gioia. Non ne vale la pena.
Scuoto la testa e torno in macchina.
Giro la chiave ma l’auto non parte e, per il nervoso, do un pugno sul volante.
«Forza! Andiamo!», dico tra i denti quando dietro di me il clacson dello
stronzo torna a suonare.
Lo osservo dallo specchietto retrovisore e lo sorprendo ad alzare le braccia in
segno di protesta.
Me ne starà dicendo di tutti i colori.
Giro di nuovo la chiave e qualcuno lassù deve aver provato pietà per me,
stavolta parte.
Volto di nuovo lo sguardo allo specchietto, si sta ancora lamentando, così
sporgo il braccio dal finestrino e con molta nonchalance gli dedico un dito
medio. Poi ingrano la marcia e riparto di corsa.
Di solito non mi rivolgo mai così, sono una persona molto calma e riesco a
trattenere i nervi, ma è riuscito a far uscire il peggio di me.
Ora però basta, Gioia. Fa un respiro profondo e rilassati.